Le imprese più grandi e appartenenti al settore industriale stanno resistendo meglio alla crisi, le micro e piccole realtà e i servizi sono all’angolo.
Il rapporto annuale Istat 2021 dedica un intero capitolo al sistema delle imprese italiane, riportandone lo stato di salute e il livello di solidità strutturale emerso dalle rilevazioni. Istat ha applicato la metodologia Receiver operating characteristics (ROC) suddividendo la totalità delle imprese in quattro differenti categorie. La prima è quella delle imprese “solide”, ovvero le “unità produttive che esposte ad una crisi esogena appaiono in grado di reagire in maniera strutturata e la cui operatività risulta influenzata solo in maniera marginale”. Seguono quella delle imprese resistenti, con “elementi di vulnerabilità ma che sono in grado di limitare la propria esposizione alla crisi” e quella delle “fragili”, che “pur non evidenziando un rischio operativo immediato risultano comunque particolarmente colpite dalla crisi”. Infine vi sono le imprese a “rischio strutturale”, che “subiscono conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività”. Ebbene, il primo gruppo, quello delle imprese solide, secondo Istat rappresenta solo l’11% del totale delle realtà italiane. Nonostante ciò, si tratterebbe mediamente di imprese di grandi dimensioni, dato che questo 11% di solide occupa il 46,3% dei dipendenti totali e rappresenta il 68,8% del valore aggiunto nazionale.
Diametralmente opposta la situazione delle imprese a rischio strutturale, che sarebbero invece il 44,8% del totale e si “limitano” ad occupare il 20,6% dei dipendenti e a generare il 6,9% del valore aggiunto. Il tema della dimensione delle aziende è una variabile chiave per descrivere l’impatto della crisi economica, secondo Istat. Circa metà delle microimprese tra i tre e i nove addetti sono classificabili come a rischio strutturale (51,7%) mentre un quarto si posiziona tra le fragili (26,3%). La situazione migliora tra le piccole (numero di dipendenti compreso tra 10 e 49 addetti), con un 20% a rischio strutturale e un altro 20% fragile. Nelle imprese di media e grande dimensione invece è preponderante la quota di realtà solide, rispettivamente al 65,4% e all’84,7%.
Limitarsi alla variabile dimensionale sarebbe però un errore. Istat sottolinea quanto abbia contato (e stia contando) l’appartenenza a diversi settori. Le imprese del terziario come prevedibile sono infatti le più colpite dalla crisi, con addirittura il 60% della totalità di quelle di servizi alla persona e il 48% di quelle dei servizi di mercato a rischio strutturale. Per comprendere la distanza basti pensare che il 41% delle imprese industriali sta mostrando “nel complesso, caratteristiche di resistenza o solidità”. Una tendenza generalizzata che coinvolge tutti i settori riguarda invece la “protezione” derivante dall’essere una impresa ad alto valore aggiunto: “In tutti i macrosettori le unità Solide hanno le quote più elevate in termini di valore aggiunto, comprese tra il 36 per cento nelle costruzioni e il 77,1 nell’industria”.
Per quanto riguarda la ripresa del fatturato dalla caduta del 2020, i settori hanno risposto in maniera decisamente eterogenea. In parte ciò è dovuto ad una effettiva differente capacità di recuperare il terreno perso, in parte anche per la dinamica registrata nel primo trimestre 2020 (periodo utilizzato per il calcolo della variazione tendenziale). In testa c’è il commercio con una variazione positiva del 22,0%, seguito da quello delle poste e del corriere con +21,8%. Soffrono la perdita più ampia del fatturato le agenzie di viaggio (-85,6%), l’alloggio (-70,8%), il trasporto aereo (-58,8%), il trasporto marittimo (-51,0%), quindi la produzione per il cinema e la tv (-38,6%) e la ristorazione (-37,2%).