L’avviamento non rientra nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, ma viene generalmente identificato nella qualità immateriale dell’impresa di produrre valore, costituendo pertanto più che un bene singolarmente valutabile, un valore economico ulteriore rispetto al valore complessivo dei singoli beni organizzati per l’esercizio d’impresa.
Esso dunque è l’indice della capacità di produrre valori, oscillanti rispetto all’ordinaria capacità produttiva dei beni dell’azienda. Si tratta in ogni caso di un bene immateriale, appostato nell’attivo dello stato patrimoniale (2424 c.c.). Ad esso fa peraltro rifermento l’art. 103 del TUIR, laddove prevede la deducibilità delle quote di ammortamento del valore di avviamento che sia iscritto nell’attivo di bilancio. Tale riferimento si giustifica, nella condivisibile ricostruzione di certa dottrina, preminentemente con l’esigenza di determinare il costo non ammortizzato, che va assunto ai fini della quantificazione dei componenti reddituali che emergono in sede di realizzo.
Ai fini fiscali dunque, nella determinazione della plusvalenza (o della minusvalenza), non può assumersi l’indifferenza del costo d’avviamento, inizialmente dichiarato (o accertato) in occasione dell’acquisto dell’azienda, e di quanto di esso, appostato nell’attivo dello stato patrimoniale, non sia stato ancora ammortizzato.
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 21124 del 02.10.2020 ha quindi affermato il seguente principio di diritto: «in tema di determinazione delle plusvalenze conseguenti alla cessione a titolo oneroso di azienda o di ramo d’azienda, ai sensi dell’art. 86, comma 2, d.P.R. n. 917 del 1986, il valore d’avviamento, che sia iscritto nell’attivo di bilancio e per il quale sia in atto la deduzione per quote d’ammortamento, va individuato nella differenza tra il corrispettivo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo non ancora ammortizzato».
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